I ricordi sono fedeli.
I ricordi sono silenziosi. Hanno la capacità di stare. Trovano un posto dove acquietarsi, non disturbano.
I ricordi restano in attesa.

Possono rimanere sopiti o rimossi per anni. I ricordi non chiedono. Sono.

I ricordi sono come una saetta che attraversa all’improvviso il corpo, legati indissolubilmente a profumi, sapori, suoni, immagini.

La stradina di accesso alla Haus sale ripida fino alla curva che ne nasconde la vista.
La montagna alta ne decide il dislivello.
Il profumo dell’aria sa di pino mugo, di fieno per l’inverno, di misticanza di fiori.
Il cielo riflette le creste, il silenzio saluta in segno di pace. Agosto.

Le prime ore dell’alba sono per pochi. L’alba richiede fatica, cerca anime curiose, ricambia con emozioni che scuotono.

Il crocifisso ligneo è storia del passato, è tradizione popolare. Là dove la viabilità principale incontra quella secondaria, il simbolo di una religiosità così detta “minore” testimonia il forte legame tra territorio, vita rurale e devozione.
Faro montano, riferimento luminoso, un tempo segnava il percorso nella notte, scandiva il passaggio della processione primaverile, momento di aggregazione di contrade e di anime.

Là, all’incrocio tra tradizione e modernità, i ricordi esplodono, immagini, profumi, suoni, sapori.
Ai piedi del Cristo crocifisso tre moderne cisterne di latte attendono il passaggio del camion che ne aspirerà il contenuto in pochi secondi per poi portarlo alla latteria.

“Domani ti sveglio presto, se vuoi bere il latte appena munto.” Era il 1963, l’anno del Vajont.

L’estate in campagna aveva un fascino particolare, ci si poteva sporcare, i vestiti non erano bianco e blu, niente pizzi sul bordo delle gonne, nessuna vernice a stringere le scarpe da città.

Rita lavava i panni all’esterno nella grande vasca in pietra, la casa dei contadini era ad un salto nell’erba.

L’alba dei cinque anni profumava di latte. Fatica alzarsi, gioia nell’uscire presto dalla severità materna.

Le mani esperte di Mario muovevano ritmicamente i capezzoli della vacca, il latte cantava, rimbalzando sulle pareti del secchio in alluminio. Era tutto caldo, la stalla, l’alito dell’animale, il nettare bianco.
Un grande imbuto accompagnava il latte in un contenitore con uno strano tappo legato da una catenella.

“Senti il suono delle pareti? Quando diventa cupo, il contenitore è pieno.”
Mario sapeva tutto, anche l’attesa di una bimba di città.

Su di una mensola in legno vissuto era un piccolo secchiello. Mani di campagna lo riponevano in piccole mani inesperte, pieno di latte fresco. Uno strato di densa schiuma calda ne proteggeva l’aroma.

“Non metterci le dita dentro, non berlo, mamma te lo deve bollire prima.”

Troppo buono, un carattere ribelle faceva il resto. La felicità si colorava di baffi bianchi, prima di colazione era un disubbidire senza pari.

Il rumore del camion per il trasporto locale del latte si faceva sentire da lontano. L’uomo al volante scendeva e sistemava una scala in ferro sul fianco della grande cisterna, ne apriva il pesante tappo posto sulla sommità e Mario gli passava i contenitori pieni di latte.
Un cenno di capo e l’uomo della latteria ripartiva rapido.

Il tempo del latte era lo stesso, la velocità nella raccolta, la necessità di lavorarlo.

Il tempo in cui lo sguardo cade a quell’incrocio mistico tra un Cristo crocifisso e un giorno che nasce, aggiusta e ripropone un sapore primitivo.

Un tempo erano carri in legno, oggi solidi carrelli a due ruote.

Un tempo erano gli anni dell’infanzia, oggi è una maturità che si commuove, il tutto racchiuso in un bicchiere di latte.

La vita?

Una bontà.

Paola Pierobon