Il mio sogno era diventare avvocato dei bambini. Ancora non mi rendevo conto che si chiamavano minori. Per me erano bambini. Minori non mi piaceva d’istinto, mi dava la sensazione di inferiorità, non solo per l’età.

Alcune scelte, il senno di poi chiarisce, hanno uno stretto legame con il proprio vissuto. I bambini sono preziosi, i bambini non si picchiano, i bambini sbagliano perché l’esempio è sbagliato.

Quando entrai per la prima volta al Bo’ * – sede storica dell’Università degli studi di Padova e della facoltà di Giurisprudenza – sentii i marmi, le scalinate, le fughe di colonne pesarmi come antica Storia sulle spalle. La magnificenza.

Già conoscevo la leggenda della catena ** posta all’ingresso principale del Palazzo, mi guardai bene dal saltarla.

Storia del diritto romano, sociologia, diritto pubblico.

“Coraggio – mi dicevo – che i bambini aspettano.“

Il primo esame. Il nome e la nomea del docente erano stampati a fuoco nella mente dei tanti a cui fece volare il libretto fuori dalla finestra. Un mito, un terrore. Andata.

In mensa si mangiava malissimo, le cotolette di mamma, scordarsele. Ripiegai su chili di pasta in bianco e tanto parmigiano. Tanta salute in più. La casa era talmente piccola, che perfino le lenzuola sapevano di burro e formaggio. Non c’era verso di cambiare aria, se non aprendo anche la porta di ingresso.

Conobbi la città che mi ospitava in tutte le stagioni, autunno tiepido, inverno nebbioso, primavera profumata dai fiori bianchi delle siepi, estate umida e calda, come i sanpietrini, compagni di vie ormai familiari.

E tornò ottobre, un anno accademico quasi concluso, in tempo. Dovere.

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Il treno non arrivava più. Un viaggio di ritorno infinito. La corsa a piedi verso casa, l’ascensore occupato come sempre.

Mamma mi accolse, un abbraccio lungo. “Papà è grave.”

Una curva fatale in montagna, un volo di 150 metri, giù, verso il torrente. Nel vuoto e nel rimbalzo due alberi su pietraia fermarono la corsa dell’auto, incastrando tra i loro tronchi il muso e parte dell’abitacolo.

Si riprese, passarono mesi, arrivò un male oscuro. Le ferite sul corpo si vedono, gli organi si operano, le gambe si aggiustano. La vitalità di papà si spense, come la luce dell’abat-jour che accendeva sempre vicino alla poltrona, in salotto, per leggere i suoi libri di caccia. Era lui diventato un bambino. Da accudire, da proteggere, da salvare.

“Devi fare un passo indietro” mi disse mamma. “Se babbo non si riprende, ti devi laureare in fretta, non c’è tempo, non ci saranno soldi neppure per un mese fuori corso.”

Cambiai facoltà. Scienze Politiche. Niente da aggiungere. Niente da fare, niente sogni, niente minori. Mi sentivo minore.

Passai da una Suola d’élite ai muri dove insistevano la lotta armata e di classe. Vidi aggredire, durante una lezione, il Professore Angelo Ventura. Volai giù dalla scalinata, presa per mano dal professore di Diritto Privato, che era a scavalco con Giurisprudenza. “Via subito!” mi disse.

Nel 1979 il Professor Ventura fu gambizzato, mentre usciva di casa. Sostenni un esame con Toni Negri (qualcuno ricorderà il Processo 7 aprile- 1979/1988).

Recuperando gli esami del primo anno, mi laureai, velocemente. Papà si riprese, mi ripresi anch’io.

La salute degli affetti non ha confronti. Il mondo dei bambini fu sostituito da mondi diversi, non per questo meno appaganti, altre storie da raccontare.

La vita è un po’ come un ballo, si gira, si piroetta, si fa un passo avanti, si fa un passo indietro. I cambiamenti sono duri per definizione, hanno la non conoscenza, il dubbio, il timore, come parte integrante del loro essere. I cambiamenti fortificano, insegnano e segnano. Che abbiano motivi noti o sconosciuti, sofferti o ponderati.

Quelli che appaiono peggiori, quelli che la vita impone, devono essere lo stimolo per conoscere se stessi e mettersi alla prova.

“Caro papá, ti sono grata. Per oggi e per il passato. Non sarei quella che sono. Il diverso, nè io nè tu sapremo mai.”

Incisioni familiari.

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*Il Bo’ Dal 1493 è la sede storica dell’Università degli studi di Padova. Di seguito: https://www.unipd.it/visitebo https://www.youtube.com/watch?v=63TVJy4vGFs

** La catena del Bo’

“Quando, dopo la prima guerra mondiale, fu costruito il portone di accesso all’Università, via VIII Febbraio, a Padova, costituiva la più importante linea di attraversamento del centro storico, anche perché le Riviere erano effettivamente tali. Per impedire il passaggio alle automobili venne quindi posizionata, all’altezza della scala che porta in rettorato, una catena in bronzo sorretta da pilastri rimovibili, che permettevano di toglierla in occasione di particolari ricorrenze. «Verso la metà del secolo», spiega Antonio Lo Savio, una delle colonne della goliardia patavina, «si diffuse la consuetudine di accompagnare il neolaureato fuori dal portone dell’Università, facendolo passare attraverso uno stretto corridoio di amici che lo aiutavano, a calci nel deretano, ad uscire dal Cortil Nuovo e a saltare la catena in questione.

Nacque così la superstizione, molto in voga nei miei primi anni universitari, che saltare la catena prima della laurea volesse dire non laurearsi più o, quanto meno, ritardare di un anno la laurea stessa”. (da web)

(PH web)

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