Pioveva. Pioveva sempre. Abitavo in un mini-mini appartamento, neolaureata, piena di speranze.

Tutti i venerdì compravo un giornale locale, solo per scorrere la pagina che pubblicava le offerte di lavoro. Ogni annuncio era composto da uno o due moduli su carta stampata, circa 47×15 mm a modulo: Offresi/Cercasi. Erano gli anni ottanta.

Tanti piatti da servire, scale o ascensori per la pulizia ai piani, sorrisi stampati per vendere vestiti o pane. I ragionieri andavano per la maggiore. I colloqui prevedevano dieci ore al giorno, in nero, per scrivere numeri.

Account

Parola a me sconosciuta, la pronuncia inglese però mi era piaciuta, anche la sostanza.

“Agenzia di pubblicità cerca account per l’Italia”.

In latteria ricordo mi feci dare un sacchetto di gettoni telefonici. Allora si comunicava con il mondo entrando in una cabina stretta, a vetri. Uno dei basculanti per accedervi immancabilmente mi sbatteva sulla schiena.

Di fronte c’era lui, il telefono. Clic cloc clic cloc, i gettoni volavano via dentro una ferritoia, si componeva il numero sulla ghiera numerata e si aspettava la linea e un pronto.

Telefonai, come una dei tanti andai a colloquio. Rimasi colpita dalla confusione di carte e colori che arredavano gli uffici. Rimasi colpita dalla magrezza del titolare, dai denti che andavano tutti all’indietro, rovinando una consonante. Le mani si agitavano come frullatori. Agitazione creativa, lo capii con il tempo.

Mi spiego’ il lavoro, il compenso. Feci alcune domande, ottenni risposte.

“Le faremo sapere” mi disse “Ci richiami”.

Passò una settimana, poi due, poi un’altra e un’altra ancora. Ogni lunedí, puntualmente, chiamavo il titolare dell’agenzia per avere notizie.

“Ci richiami, non abbiamo ancora scelto la persona”.

Il sacchetto dei gettoni si svuotò e ne comprai un altro. Pioveva sempre, era novembre. Con o senza ombrello, la cabina telefonica era la mia meta, dopo il fine settimana. Un lunedì chiamai per l’ennesima volta.

“Paola buongiorno, venga domani alle nove in agenzia”.

Mi bagnai tutta, capelli, impermeabile, scarpe: saltavo di gioia! Il giorno dopo mi ripresentai.

“Ho deciso di scegliere lei, Paola. Nessuno ha avuto la sua tenacia, testardaggine nel continuare a telefonare. Ha dimostrato voglia di fare e interesse. E’ una buona partenza.”

E cosí quella parola inglese “account” prese le mie forme e iniziai a fare l’account*.

Gli anni ottanta erano diversi, gli strumenti tecnologici non erano quelli di adesso. I motori di ricerca principali erano i piedi. Carta e penna o il diario servivano per non dimenticarsi. La mitica cabina telefonica era il contatto non disinfettato con il resto del mondo. Il tempo era vissuto con un’altra dimensione.

E poi c’era un fattore importante: per incisioni familiari (sarà un’altra storia da raccontare), dovevo mantenermi da sola e in fretta.

Un aspetto, o forse di più, rimane anche oggi: fare. Che significa proporsi, insistere, aggiornare le qualità che si possono offrire. L’esperienza e la sorella competenza sono frutto della determinazione con cui anche il lavoro più umile, ma onesto, scelto o accettato per iniziare, diventa stimolo per la crescita personale, per trovare fiducia in se stessi, per fare una valutazione di cosa si vuole da un presente certamente non facile. Il futuro ne sarà conseguenza.

Spaventano i “Sì, farò” – “Sì, ci penserò” – “Ora vedo”. E intanto quel tempo, quello spazio sono già stati riempiti da altri.

*“account” Questa figura professionale, all’interno delle Agenzie di Pubblicità, si occupa di “tenere i contatti” con l’Azienda-cliente: raccoglie e interpreta le richieste dell’azienda cliente, ne valuta e, possibilmente, ne anticipa i bisogni. Trasferisce poi tali richieste in agenzia, la quale poi le traduce in comunicazione- pubblicitá.

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