Erano lavorati a trama larga.


I cotoni si annodavano tra loro, lasciando piccoli oblò di leggerezza,
dai quali si intravedevano le efelidi, il dorso della sua mano.
I cotoni s’aggiustavano ordinati ad una pelle conciata dello stesso colore naturale.
Papà chiudeva con cura il bottone automatico che teneva fermi i guanti da guida alle mani.
Non guidava mai senza.

Pollice e indice giravano la chiave d’accensione.

“Senti come canta il motore!”

La passione per le auto univa due generazioni diverse.
Avevo il permesso di lavare i fari anteriori e posteriori, quando mi portava con lui a rendere lucida la sua Alfa Romeo blu.

Le mani erano salde sul volante, cambio di marcia, su, su tornante dopo tornante.
I rettilinei gli permettevano di appoggiare la mano destra al pomello in legno laccato,
lucido, con lo stemma della casa automobilistica in rilievo. Sembrava un trofeo.

“Oggi andiamo al Rifugio Aquileia, ho “mestieri” lì.
“Se stai buona ti faccio cambiare le marce.”

Gli occhi sereni ed attenti ai pericoli bisticciavano con un naso aquilino. A scatti s’arricciava, non capii mai il perché.

Stava bene con la polo azzurra, in cotone leggero a nido d’ape. Anche in estate il primo bottone restava chiuso.
“Mi brucio anche il collo, se non sto attento.”
E rideva con il naso che inseguiva la bocca.

Nel piccolo vano vicino al cambio, le sue preferite, le pastiglie Leone alla violetta.

Bussavano e si muovevano nella confezione in cartone viola e blu.
Con la scusa di sistemare il pacchetto perché facessero meno rumore,
infilava tre dita nella scatolina e con mossa fulminea tre tocchetti erano in bocca.
Per me papà era un mito, guidava e mangiava.

“Ne vuoi una?”
“Sai che non mi piacciono, al rifugio mi compri le frizzine.”

Alla fine dei tornanti, là dove la salita si addolciva di prati verdi e sonore vacche al pascolo, era la mia ora.

La prima in alto a sinistra, la seconda giù, la terza in su vicino alla prima, la quarta in giù a destra della seconda.
Non potevo inserire la quinta marcia, proibito.
Papà non toccava più il cambio, era mio compito. Comunque vigile.
Ascoltavo il motore, i giri che aumentavano e chiedevano.
I piedi di papà erano il segnale: inserivo la marcia quando il piede sinistro era teso sul pedale.
Sincronia assoluta, la terza era entrata.
Lo guardavo felice.

“Brava pitus” (pulcino in dialetto)
La seconda era una prova più difficile, muovendomi con la manina sinistra dovevo essere accorta nel non sbagliare.
Si poteva grippare il cambio.

Mi sentivo adulta, lui aveva fiducia in me.
Fiducia e dimestichezza erano i suoi pilastri nell’insegnare a vivere.

Avrei preso la patente e avrei portato papà in montagna con me.

Di anni ne mancavano dieci, ma ero sicura che sarei arrivata agli esami con una marcia in più.
Papà

Paola Pierobon

(ph web)