A mia madre.

Non c’è un tempo per ricordare. I profumi e i colori ricordano per lei.

Lo ammetto, ho sempre meno voglia di cucinare. Passati i tempi dei sabato sera con minimo dieci ospiti e trenta bicchieri in cristallo da lavare e pure asciugare. Oggi mi domando. Anzi, non mi domando più. Sto bene così, stiamo tutti meglio con le gambe sotto la tavola di una trattoria o di un ristorante.

All’università ero la più grande consumatrice di mozzarelle e prosciutto crudo comprati da Dante in via Altinate a Padova, cinque minuti prima della chiusura. Non esistevano i sacchetti di verdura lavata. Niente verdura. Frutta poca, pasticci tanti. Di tutti i tipi. Ottimo caffè con radio Abano la mattina presto. Lei inorridiva le rare volte che mi veniva a trovare. Pazienza.

Mia madre era una cuoca sopraffina, capisco ora che: non era “occupata”, aveva l’aiuto in casa, cucinare era l’hobby. Io no. Non mi butto giù del tutto, con famiglia ho imparato per forza a sostare sui fornelli. Dicono che i risultati, quando risultano, sono positivi. Sì, poche cose, ma fatte bene. Buone. Salva.

Ciò che non ho salvato di lei, è la sua passione, scritta fitta fitta ovunque, sul primo quaderno di cucina come regalo di nozze nel lontano 1954, sui nostri quaderni delle elementari mai usati, dove facevano spessore le ricette ritagliate in tutte le forme , lunghe strisce piegate a fisarmonica incollate con il Vinavil.

Il suo re era il baccalà in rosso. Cucina Italiana? Cucchiaio d’Argento? L’amica del cuore? Il pescivendolo di fiducia? Non lo saprò mai. Più.
Il sapore sì, è rimasto. E’ rimasto il rito, il profumo che due giorni prima era puzza.

L’arte di ammollare il baccalà, era arte. Non capivo. Ero piccola. Mamma gli cambiava l’acqua, come fosse un pesciolino rosso. Il tegame in coccio era talmente grande e basso che così non ne avevo visti mai. Entrava in forno. Era un lusso allora entrare in forno.

Ricordo che la tavola in cucina ospitava il primo passaggio di questa preparazione che durava tre giorni. Il tagliere strabordava di colori che poi mamma mi spiegava così: sedano, carota, cipolla. Per me erano colori che avevano un odore pazzesco, peggio di quello dei colori a tempera.

Questo mucchietto veniva messo a galleggiare con olio di semi e oliva in parti uguali. Del verde strano, erbe aromatiche, aggiungeva una tonalità. La storia della camicia mi era incomprensibile, non ammettevo ci fosse un aglio con la camicia. Ridevo forte, col buco dei denti davanti, le codine di capelli rossi dondolavano. Voleva dire non pelato, un po’ come papà, insomma. Papà lo era, ma non molto.

Una volta aggiunto il latte, era il momento del re a pezzi. Lo accomodava pian piano nella teglia, un tocco alla volta. Chissà che differenza avrebbe fatto buttarlo tutto in un colpo solo. Iniziava il giorno del sobbollo. A quei tempi c’era la “retina”, una strana cosa rotonda che si appoggiava sopra la fiamma per diminuirne il calore. Aveva un anellino per appenderla, un cerchietto di alluminio tratteneva la griglia.

Il baccalà andava. Il giorno dopo mamma aggiungeva altre cose strane, me ne accorgevo quando tornavo a casa da scuola. Il pomodoro però era evidente e tanto.

La casa era impestata, le tende, secondo me anche i muri. Salvavo a malapena la mia camera, avevo la carta da parati a fiorellini: i fiorellini non dovevano sapere di baccalà!

Il terzo giorno era il gran giorno. Sopra questo lago di pesce e sugo, mamma sistemava scaglie di parmigiano su tutta la superficie e sopra distribuiva altro formaggio, grattugiato rigorosamente a mano. Lei aveva il mal di testa dall’agitazione, infilava il coccio nel forno e si sedeva sfinita sulla sedia, un piede qua e un piede là. Mi domandavo perchè facesse cose che le procuravano emicrania.

I grandi per me erano incomprensibili.

Dopo un paio di ore iniziava a invadere anche camera mia un profumo che ho ancora nel naso, un profumo di Venezia, di nonna, di bontà infinita. La crosta, doveva formarsi la crosta, alta, croccante, spessa, dorata. La crosta era coperchio per custodire il cuore tenero, anticipare con forza la sublime invadenza del gusto del pesce.

Quando la tavola era apparecchiata e la polenta integrale, comprata al mulino, era cotta, sapevo che arrivava il grande momento. Mamma apriva il forno, aiutandosi con due grossi canovacci di lino a righe. Si scottava sempre, non usava lo smalto. I suoi occhi nerissimi e severi brillavano, per una volta. Appoggiava la bontà sui fornelli, a me sembrava un vulcano di vapore, di sapore. Non si doveva avere fretta, perchè il riposo faceva fondere i gusti.

In tavola, al centro, la polenta fumava sul tagliere di legno, lo spago attaccato per fare le fette. Il baccalà era servito, tutti seduti, il tovagliolo infiocchettato sul collo. Mano esperta di cuoca affondava il cucchiaione, la crosta si tingeva di sugo, nei piatti un arcobaleno.

Il silenzio gustoso era la grande festa.

Brava mamma, un capolavoro.

Irripetibile, come Lei.