Lo sconcerto (di un incontro)

 

I giorni di pioggia hanno un loro fascino. Fiumi di parole, milioni di gocce per dar loro un senso.

Saranno i suoni diversi che accompagnano i rumori. Tutto scivola, sdrucciola, luccica. In questo luccichio che la sera si fa riflesso di selciato, di lampioni intermittenti, di alberi che non celebrano niente, il cielo è di fronte. E’ sempre lo stesso, mai uguale. Affiora un pensiero custodito tutto un giorno in un guscio protettivo, quasi come se l’acqua lo aiutasse a sciogliersi.

Emerge un sentimento ancora senza contorni. Disturba per lo sforzo che richiede. Capire. Se ci si mette nei panni di altri, il distacco genera equilibrio? Forse no. L’equilibrio, come la resilienza, si innesca dopo aver metabolizzato il lutto. O la perdita. O l’accaduto. L’equilibrio è Oltre.

Scrivere aiuta a raggiungere una forma di pace accettazione. Nascono così i libri.
Il cielo rimanda una parola: sconcerto. E’ parola pesante, più dell’odio, più dell’amore. Lo sconcerto è Oltre. Passa per l’amore, passa per l’odio, passa per la prova dell’indifferenza. E’ più potente. Incide come scalpello, erode come l’acqua, spazza come il vento.

Pesa come un macigno, non giustifica. E’ parola strana, si avvicina alla musica, racchiude un concerto senza suoni.

Lo sconcerto si prova, difficilmente si comprende. Lascia immobili, inermi, attoniti. Come bimbi che hanno perso la palla. Come solitudine che non ha ombra.

L’aria riprende fiato, uno squarcio di azzurro mitiga e si va Oltre.

Sconcertante, a volte, la vita, le persone che, come alberi, anche se c’è vento non si muovono.