Lettere non arrivano più. Non si spediscono più.

La lettera era fascino, sorpresa, aspettativa, realizzazione di un sogno, sicurezza di vittoria o di sconfitta.
Il tempo della speranza aveva valore. Non c’erano giorni o settimane certi, c’era solo da aspettare. L’educazione all’attesa.

Oggi basta una voce, un’iride per aprire una mail, una PEC, un messaggio, chiudere una Porta. Occhi e sguardo non vedono, non leggono il nome del Duca del Francobollo. Narici non sentono il profumo della carta.

Il tagliacarte è un ricordo, il foglio piegato in quattro o in tre non scorre tra le mani,
con un palpito nel cuore per vedere se il testo si conclude con un sentimento, una conferma, un plauso o un addio.
La busta dove è incollata l’ultima emissione con l’Orchidea nera non viene tagliata.
Manca alla collezione, in acqua tiepida si staccherebbe senza rovinarsi.

Si stacca un ricordo frastagliato, bianco su nero.

Scrivere. Era un rito entrare in cartoleria, dove il profumo della scrittura e degli acquerelli ricordava i banchi di scuola.
La cura era scegliere il colore, la forma, l’artigianalità di una busta e del suo foglio.
La sensibilità era capire se sarebbe piaciuta. Sul foglio si lasciavano le tracce degli errori, dei ripensamenti.
Il righello da venti era strumento per scrivere dritto, un cuore colorato con la BIC rossa era metafora per rafforzare un amore.
Si usava un Egregio o un Chiarissimo.

“Carissima zia Pina,”

Oggi non si affranca, non ci si affranca. Ci si abbona, si delega, non ci si incontra al piccolo ufficio postale che profumava di caffè.
Nella buca cadono, dalla mano distratta dell’incaricato di turno, fatture,
fattucchiere, maghi del marketing e improbabili annunci di vittorie non sudate.

E così, per la malinconia e il bisogno di riportare la magia di quel tempo,
colori accesi dipingono la cassetta dei sogni, dove poterli custodire e poterli aprire lentamente, uno alla volta.

Il tempo di un tempo riposa al civico 2.