La coperta era di lana caprina, spessa e ruvida. Pesante, aveva i contorni rifiniti con un nastro di raso di un tono più chiaro, che dava luce all’opacità della trama color pasta frolla.


Il baule della Giulietta Super sembrava ridesse, aprendosi. Aveva delle strane pieghe, la linea nuova, uscita da poco. Erano gli anni sessanta. Era blu, come sempre, Alfa Romeo blu.

Le mani forti e lentigginose di papà afferravano la coperta mal piegata e con un colpo secco spariva l’erba del prato per lasciar posto all’imbandito agreste. Il terreno un po’ scosceso teneva in bilico le stoviglie e la bottiglia dell’acqua con l’idrolitina.

“Quando mamma si distrae, appoggio anche la bottiglia di vino.” Diceva il babbo. Mi riempiva di nascosto il bicchiere di acqua, un goccio di vino rosso si espandeva nella fresca trasparenza, volteggiando colorava la bevanda proibita di un lieve amaranto. Bontà.

La panetteria aperta anche di domenica sfornava un pane croccante, farina impastata con acqua di montagna. Un altro gusto. Le Dolomiti accudenti, inclinate verso di noi, erano madri di sorgenti cristalline. Da lì nasceva il pane buono.

Mamma si sedeva con le gambe piegate verso il busto, i piedi arcuati come una ballerina di sogni irrealizzati. Anche in montagna portava le gonne, nessuno di noi capì mai il perché.
Strideva l’abbigliamento da cacciatore esperto con la parsimoniosa eleganza di mamma. Sopra la gonna a pieghe, un collettino stondato e ricamato rifiniva la camicetta in popeline di cotone bianco, abbottonata fino al collo. Estate piena. Bottoni di madreperla.

In piazzetta a Caprile, papà comprava le camicie da caccia. Quel giorno era rossa, a scacchi neri, due enormi tasche davanti. Il bottone di una era chiuso, custodiva uno Swisschamp, coltellino svizzero pieno di cose dentro: pinzette, stuzzicadenti, forbici, stappa bottiglie, la limetta per unghie, un seghetto e due lame affilate di misura diversa. Proibito.

Mio fratello tirava sassi nel torrente, vietato giocare a pallone, la quiete era parte integrante del panorama.

Verso mezzogiorno iniziava il rito a me tanto caro: l’apertura della scatoletta di carne Simmental.
Era come il Ciocorì a scuola, messo nella cartella una sola volta alla settimana, il sabato arrivavo a scuola con il premio. Gli altri giorni, pane e marmellata fatta in casa. Non si poteva discutere.
Solo per il pic-nic era concessa la carne salatissima e gustosa, chissà cosa c’era dentro, diceva mia madre.
Nel momento in cui l’apriscatole finiva di seghettare il coperchio, usciva un profumo di permesso e di piacere. Un sottile strato di grasso giallo separava la gelatina dalla carne compressa a cilindro. Una lieve pressione e il blocchetto succulento si appoggiava fremendo sul piatto senza perdere la forma.

Le mani d’oro di babbo tagliavano il pane a metà, un velo di maionese e con il coltellino svizzero dividevano equamente tra i figli le porzioni.
Avrei voluto che la gioia del gusto non si avventurasse nella pancia, tanta era la delizia. Come tutte le cose belle, sarebbe finito anche il panino con la Simmental.
Guardavo complice papà, mentre mamma offriva il viso al sole, le braccia stese a sorreggere un busto prosperoso, le mani appoggiate sui palmi, abbelliti da ciuffi d’erba e corolle di margherite.

Erano genitori pudichi, non li avevo mai visti baciarsi. Sentiti discutere sì, spesso, aveva sempre ragione mamma. Mi sentivo già adulta in vantaggio.

Sull’erba preferivo restare bambina, con un padre sempre dalla mia parte e con lo Swisschamp pronto per qualsiasi rimedio.

La Simmental era simbolo di libertà, la domenica insieme un rito bucolico, atteso.
I tornanti del Passo Giau ci riportavano prudentemente verso casa, allontanando pian piano alla vista il prato accogliente.

La memoria di così profonda e fortunata infanzia rimane, tra rettilinei e curve improvvise.
La maturità ricorda e ringrazia.

Paola Pierobon